“Terra terra”, tra le detenute di Rebibbia ritorna la speranza

29/05/2015 - 

Un gesto simbolico quello delle detenute di Rebibbia che stringono tra le mani le spighe di grano coltivato tra le mura del carcere, a sottolineare la speranza e la possibilità di compiere azioni concrete per invertire la rotta. Un piccolo progetto, dal titolo evocativo “Terra terra”, sostenuto da Libera e realizzato anche grazie al sostegno finanziario di Arsial che propone all’interno del carcere un percorso rieducativo dedicato alle donne che intendono impegnarsi nella coltivazione di prodotti agricoli.

Grazie all’impegno di Giulia Merenda, insegnante e regista che ha proposto e condotto l’iniziativa insieme a Libera, alternando lezioni teoriche sulle tecniche basilari di coltivazione con momenti di pratica in campo, oggi si raccolgono i primi frutti. Le spighe che vengono mostrate quasi a testimonianza di una sfida su cui l’intero gruppo di detenute si sente impegnato, anche se in largo anticipo sui tempi della maturazione biologica, segnano una prima tappa del percorso riabilitativo. Così sui terreni della casa circondariale femminile di Rebibbia, giorno dopo giorno, si sta costruendo una vera e propria azienda agricola che, oltre a soddisfare parte del consumo interno del carcere, vende anche all’esterno i suoi primi prodotti, prevalentemente ortofrutticoli.

Alla celebrazione intervengono anche le istituzioni che hanno promosso e patrocinato l’iniziativa, l’associazione Libera in primo luogo con il suo presidente don Luigi Ciotti, ma anche il Comune di Roma con l’assessore alla legalità Alfonso Sabella, la Regione Lazio e il Garante dei detenuti. E, naturalmente, Arsial con l’amministratore unico Antonio Rosati, che esordisce: “Oggi è una giornata di festa, l’Agenzia ha voluto finanziare con 10mila euro questo piccolo grande progetto di integrazione perché le istituzioni hanno il dovere di aiutare chi ha sbagliato.”

“L’agricoltura, prosegue Rosati, si dimostra ancora una volta un grande settore produttivo. L’iniziativa nata all’interno del carcere, portata avanti dalle detenute, è il frutto di una buona agricoltura; non sarà certo per il mercato di Londra o Melbourne, ma può dare risultati di reddito, e dunque di dignità. Finanziare un progetto come “Terra terra” vuol dire vincere la paura: non possiamo rassegnarci alla logica dell’austerità, perché se è vero che è necessario avere i conti in ordine, è altrettanto vero che è necessario fare investimenti per le persone.”