Premessa
Gli interventi di riforma agraria realizzati in Italia nel corso degli anni ’50, insieme alle opere di bonifica del periodo fascista e pre-fascista hanno determinato nel paesaggio agrario e naturale, nelle condizioni ambientali e nelle strutture sociali delle aree rurali il cambiamento forse più significativo degli ultimi due secoli. La bonifica di terreni improduttivi, le sistemazioni idrauliche, la creazione di strutture di comunicazione, il risanamento di aree umide infestate da malaria, hanno fornito nel corso dell’ultimo secolo un grosso contributo ad aumentare la disponibilità di aree da destinare alla coltivazione agricola. La redistribuzione delle terre demaniali o dei grandi latifondi a famiglie di operai o coltivatori indipendenti ha comportato significativi cambiamenti sociali e culturali nelle aree rurali, anche per effetto dei trasferimenti massicci di popolazioni destinate ad incrementare le schiere dei coloni presso i nuovi insediamenti. Popolazioni di provenienza diversa si sono trovate, loro malgrado, a condividere un’ esperienza singolare e allo stesso tempo totalizzante, tanto da essere esposte ampiamente al rischio di perdere almeno in parte la propria identità culturale; ma vi è stata anche introduzione e assimilazione di nuovi usi e costumi, sviluppo e sperimentazione di nuove tecniche e di nuovi modelli produttivi, scambi tra diverse tradizioni culturali, circolazione di vecchi e nuovi “saperi”. Il sorgere di nuovi insediamenti abitativi, la creazione di borghi residenziali e di servizio e di una rete infrastrutturale di base (strade, acquedotti, ecc.), capace di assicurare le comunicazioni e la fornitura dei servizi essenziali, così come l’introduzione di nuove tipologie aziendali e di nuovi indirizzi produttivi, tutto ciò ha lasciato segni profondi e indelebili sui territori interessati, fino a modificare in alcuni casi la stessa morfologia dei luoghi.
La Riforma Fondiaria in Italia
La riforma agraria degli anni ’50 rispondeva all’atavica rivendicazione della redistribuzione delle terre espressa dalle fasce più emarginate del mondo rurale della penisola, vessate quotidianamente da un regime fondiario imperniato sul latifondo e sulla grande proprietà terriera assenteista. Già sul finire dell’ottocento e nei primi decenni del ‘900, ma soprattutto dopo la prima guerra mondiale, si era venuto formando prima e consolidando poi, nel nostro paese, un robusto movimento che rivendicava la redistribuzione delle terre alle classi diseredate della società. Si trattava tuttavia di un impulso che, solo a tratti e solo in alcune aree del paese, specie in quelle ove i sistemi di produzione erano più avanzati, aveva trovato forme organizzate per esprimersi e aveva condotto a conquiste significative a favore dei lavoratori della terra. E’ nel biennio ’48-50 che tramonta nel nostro paese il sogno di una radicale riforma agraria e perdono progressivamente peso le parole d’ordine fino ad allora egemoni “la terra ai contadini” e, soprattutto, “la terra a chi la lavora”. Già nel ’44, Bonomi aveva dato vita alla Confederazione italiana dei Coltivatori diretti e, in seno alla DC, si era affermato un forte movimento favorevole alla costituzione della piccola proprietà contadina, che faceva leva su una base sociale particolarmente sensibile alla conservazione e alla conquista della proprietà privata. Le forti pressioni dei proprietari terrieri, gli equilibri precari dell’immediato dopoguerra e i timori di una deriva socialista, avversata fortemente dall’amministrazione americana, uniti alle divisione della sinistra, fecero il resto. La riforma stralcio degli anni ’50 nasce in questo clima, come risposta in qualche modo obbligata di fronte alla incontenibile tensione presente nelle campagne italiane; ma nasce anche per rompere il fronte contadino, intraprendendo un percorso che fa dei futuri “assegnatari” un ceto privilegiato tra i lavoratori della terra. Il merito che, senza ombra di dubbio, bisogna riconoscere alla Riforma stralcio varata nel ’50, sono i tempi di attuazione. Già nel ’51, erano operanti gli Enti di Riforma sugli otto comprensori individuati e, nel giro di poco più di due anni, erano state portate a termine le operazioni di esproprio e di assegnazione. L’intervento comportò il trasferimento di 760.000 ettari tra espropri, acquisti da privati e cessioni del demanio statale e fu in grado di soddisfare le richieste di 113 mila assegnatari, suddivisi tra circa 68.000 titolari di poderi e 45.000 destinatari di quote agricole. La riforma agraria intervenne, sia modificando profondamente l’assetto fondiario del paese, sia riformando i contratti agrari allora vigenti. Al di là delle giustificate riserve cui si è fatto cenno e delle perplessità suscitate da alcune modalità seguite nella fase di assegnazione dei nuovi poderi e nella successiva gestione delle aree di riforma, “Indiscutibilmente la legge stralcio e la riforma agraria hanno posto fine al letargo in cui giacevano gran parte delle campagne italiane da secoli: hanno sgretolato il latifondo, che era rimasto intatto nella Maremma, nel Mezzogiorno e nelle Isole; hanno decretato la scomparsa dei baroni della terra e, con loro, degli anacronismi e dei privilegi di sapore ancora feudale”.
La Riforma Fondiaria in Maremma
In queste terre chiuse tra la Capitale e le province di Livorno e Pisa, tra il Tirreno e i contrafforti preappenninici, lungo una dimensione territoriale di circa un milione di ettari… il paesaggio aveva accenti melanconici. …Si andava, lungo la campagna, per diversi chilometri senza incontrare che cacciatori erranti dal volto acceso e dal carniere gonfio. C’erano zone che le conoscevano soltanto gli aerei, le pecore, i pastori e le rare famiglie che vi trovavano lavoro come braccianti e salariati. …. Gli anni sono passati. Lenti i più lontani, veloci i più recenti ed anche questa campagna, che in alcuni punti sembrava al di fuori del tempo e della realtà, è cambiata. Sono scomparsi gli immensi pascoli, regno di mandrie e di silenzi, la vasta pianura si è trasformata. Le macchine e gli uomini hanno domato la pietra compatta, l’argilla friabile…. Se si fa eccezione per la retorica straripante, questa breve citazione tratta da “Un Giorno in Maremma”, pubblicazione curata dall’Ente Maremma e pubblicata nel 1966, rende egregiamente l’idea di quale fosse la condizione delle campagne tosco-laziali alla vigilia della Riforma fondiaria. Latifondo cerealicolo e pastorizia transumante dominano ancora, all’indomani del secondo conflitto mondiale, nelle campagne laziali a nord di Roma. Il quadro dell’economia agricola dell’agro romano era rimasto sostanzialmente immutato rispetto a quanto descritto nel corso della ben nota inchiesta Jacini, che a fine ‘800 così efficacemente aveva descritto le condizioni di arretratezza e di miseria di vaste aree della penisola. Prima della riforma, il 50% della superficie produttiva era destinata a seminativi nudi, il 13% a pascolo, il 29% coperta da boschi; solo il 4% della superficie era occupata da colture specializzate, soprattutto oliveti e vigneti. Nella maremma laziale, predominavano i pascoli e i prati permanenti. Nel ’51 la popolazione agricola costituiva i 2/3 della popolazione totale, con una densità di 55,8 abitanti per Kmq., rispetto ad una media nazionale di 155 abitanti per unità di superficie. Gli ordinamenti produttivi di tipo estensivo erano responsabili di una crisi occupazionale strutturale tra la popolazione attiva, tra cui predominavano figure miste di lavoratori che solo marginalmente trovavano lavoro in agricoltura. Soprattutto nella maremma laziale, la percentuale dei coltivatori puri era molto bassa. Il regime fondiario presentava un’estrema divaricazione tra una proprietà latifondista molto concentrata (800 proprietari, pari allo 0,9% del totale, detenevano il 73,5% della superficie produttiva con proprietà superiori ai 100 ettari; il 53% della superficie produttiva era di proprietà di aziende superiori ai 500 ettari) e una piccolissima proprietà al di sotto dei 2 ettari, molto diffusa ma estremamente polverizzata. Scarsa la densità dei fabbricati rurali, mentre altrettanto ridotta era la superficie irrigua. L’allevamento del bestiame era di tipo estensivo, il grado di meccanizzazione era tra i più bassi della penisola. L’Ente per la Colonizzazione della Maremma Tosco-Laziale e del territorio del Fucino, creato nel febbraio ’51, procedette immediatamente all’individuazione delle proprietà da assoggettare ad esproprio, in base alla consistenza delle proprietà detenute in ambito nazionale alla data del 15 novembre 1949. Il comprensorio della Maremma tosco-laziale si estendeva su una superficie territoriale di 995.390 ettari, includendo 28 comuni della provincia di Grosseto, 28 della provincia di Roma, 24 di Viterbo, 10 di Pisa, 3 di Livorno e 3 di Siena. La superficie produttiva, pari a 954.833 ettari, era costituita per il 17% di territori di montagna, per il 67% da terreni collinari e per il restante 16% da pianura. Alla fine del ’51, erano già stati predisposti i piani particolareggiati di esproprio nei confronti di 662 ditte, per un totale di 237.828 ettari di superficie. Seguirono poi i ricorsi da parte dei proprietari terrieri che permisero di contenere gli espropri programmati. Così, l’effettiva superficie interessata si ridusse a 177.458 ettari, di cui 56.294 ettari ricadenti nella maremma laziale, ove si procedette all’esproprio nei confronti di 262 proprietari latifondisti. La successiva opera di assegnazione, fu scandita da tre passaggi fondamentali: i piani di colonizzazione, che su base comunale individuavano le famiglie aventi titolo all’assegnazione, l’entità e la localizzazione degli espropri, la consistenza delle unità poderali; i piani di trasformazione fondiaria che definivano le opere aziendali e interaziendali necessarie, oltreché gli essenziali servizi civili da predisporre; e infine, i piani di appoderamento che provvedevano a delimitare le nuove unità di produzione, la rete viaria, ecc. Al 30 settembre ’54, l’Ente aveva distribuito 123.991 ettari a 15.496 capifamiglia contadini: 6.582 poderi e 8.914 quote. In Toscana si giunse alla costituzione di 4.669 poderi, mentre nel Lazio le nuove unità di produzione raggiunsero il numero di 2.844. Contemporaneamente, nelle due regioni, oltre 11.000 furono le quote integrative riconosciute alle famiglie contadine. Queste ultime, di norma comprese tra i 2 e i 4 ettari, erano concepite come unità produttive destinate all’integrazione di reddito della famiglia contadina. Il podere, al contrario, era pensato come un’unità organica, economicamente autosufficiente, costituito da una porzione di terreno variabile tra i 10 e i 18 ettari (media 14 ettari), a seconda della natura del terreno, su cui oltre alla forza lavoro della famiglia era prevista un’abitazione e una stalla. Nella progettazione degli appoderamenti, si scelse di norma la strada dell’insediamento sparso, costruendo laddove era necessario nuove unità abitative direttamente sul fondo rustico. Ma tale impostazione doveva anche, per il possibile, evitare gli eccessi dell’isolamento dei nuovi nuclei familiari derivanti da un’estrema dispersione sul territorio e parallelamente ridurre al minimo gli investimenti di tipo infrastrutturale (strade, acquedotti, servizi collettivi, ecc.), richiesti per servire le aree di nuovo insediamento. Al 30 settembre ’54, risultava già appaltata la costruzione di 4.659 nuove case coloniche, mentre i programmi formulati a quell’epoca prevedevano un complesso di 7.800 nuove abitazioni rurali al servizio dei poderi, 1.640 per le quote e la ristrutturazione di 1.760 fabbricati esistenti. Furono così realizzate sia le strutture necessarie in ciascun singolo fondo, sia le sistemazioni idraulico – agrarie, sia le infrastrutture di uso collettivo, necessarie a rendere possibile la vita in zone pressoché deserte: strade interpoderali, acquedotti, borghi e centri di servizio, asili, scuole, chiese, ambulatori, circoli ricreativi. Accanto a tale attività, l’Ente dovette avviare interventi volti all’elevazione culturale e alla formazione professionale degli assegnatari, che si concretizzarono in un’intensa attività d’istruzione, un’assidua e capillare opera di assistenza tecnica, economica e finanziaria, di dimostrazione e divulgazione di tecniche operative. Infine fu promossa, rendendola di fatto obbligatoria, la cooperazione fra assegnatari, sia sul fronte dell’acquisizione dei mezzi tecnici intermedi, sia al fine di rendere possibile la trasformazione e la commercializzazione dei prodotti agricoli e zootecnici ottenuti dalle coltivazioni e dagli allevamenti. L’opera di riforma si conclude ufficialmente in Italia, e nel Lazio in particolare, nel 1965, quando agli Enti di riforma subentrano, per legge nazionale, gli Enti di Sviluppo agricolo, a cui vengono assegnati nuovi compiti legati, appunto, allo sviluppo delle aree rurali. E a partire da questa data, inizia un nuovo capitolo che porterà, con la creazione delle regioni, ad interventi differenziati a seconda delle diverse aree territoriali del paese.
Testo predisposto in occasione della Conferenza stampa di presentazione del portale Agristoria.it “Sulle Terre della Riforma: Luce sull’Italia agricola del dopoguerra”, realizzato da Arsial e Cinecittà Luce.
A cura del dott. Maurizio Targa (ARSIAL – Area Promozione e Comunicazione)